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Il dibattito sulla verità

tra Blondel e Garrigou-Lagrange

pubblicato in Sapienza, vol. 43 (1990), fasc. 3, pp. 293/310.

Intendiamo occuparci del dibattito sulla verità iniziato nella seconda metà degli anni Quaranta dal padre Réginald Garrigou-Lagrange, principale esponente del neotomismo di allora, in polemica con la tesi di Blondel, in cui sostanzialmente si riconosceva quella che fu definita dallo stesso Garrigou-Lagrange Nouvelle Théologie.

È nostro intento ricostruire con fedeltà i termini esatti della disputa, senza sovrapporre affrettate interpretazioni e senza forzare le posizioni in un appiattente eclettismo. Dobbiamo però anche dire che siamo mossi non da un disegno eruditamente archeologico, ma dalla convinzione che quel dibattito, che si mantenne (nonostante tutte le asprezze polemiche) su un livello culturalmente e teoreticamente elevato, abbia ancora qualcosa da insegnarci.

1. Il contesto del dibattito

Il dibattito, nella sua forma pubblica, si colloca tra il 1946 e il 1948, esprimendosi in una serie di articoli polemici, iniziata e conclusa dal Garrigou-Lagrange [1]. È tuttavia ovvio che per una sua adeguata intelligenza occorre, sia pur brevemente, rifarsi ad un precedente, più ampio contesto, contrassegnato dalla dialettica tra due fondamentali impostazioni della teologia cattolica, in particolare circa il problema della modernità.

è noto come quello della modernità sia stato e sia un problema ineludibile per la cultura cattolica, che, soprattutto negli ultimi due secoli, si è trovata di fronte ad un mondo e ad un pensiero egemonizzati da un atteggiamento esplicitamente immanentista e ostile alla fede tradizionale. Il profondo solco scavatosi tra cristianesimo e mondo moderno ha suscitato, in ambito cattolico (schematizzando molto), due fondamentali posizioni: l'una insiste sulla condanna della modernità, come fenomeno intrinsecamente negativo, a motivo del suo antropocentrismo e del suo conseguente soggettivismo gnoseologico ed etico; l'altra tende a porre piuttosto l'accento sugli aspetti positivi del moderno, ritenuti integrabili in una visione e in una prassi cristiana, disgiungendoli dal contesto immanentistico in cui sono stati concepiti [2].

Il primo tipo di atteggiamento è stato quello che ha caratterizzato maggiormente il neotomismo, fin dal secolo scorso, con una vigorosa e forte denuncia dei pericoli insiti nel soggettivismo gnoseologico moderno: negare l'oggettività della conoscenza umana, cioè la presa dell'intelligenza sull'essere e la validità dei concetti, non era senza conseguenze, non solo per tutta la filosofia[3] ma per lo stesso dogma cristiano. Una conoscenza naturale che fosse infatti chiusa nelle sue rappresentazioni soggettive, non sarebbe poi trascendibile dalla conoscenza soprannaturale, che resterebbe essa pure circoscritta nel perimetro della soggettività; ma una fede che non aderisse al suo oggetto come a qualcosa di reale e indipendente dall'arbitrio soggettivo non sarebbe più la fede degli Apostoli [4]. Si vede come la posta in gioco fosse della massima importanza, e come l'intento del neotomismo fosse quanto mai degno e plausibile. Si trattava di salvaguardare, con la conoscibilità della verità, la conoscibilità della Verità . È questa una delle tesi portanti di una delle più vigorose opere del Garrigou-Lagrange, Le sens commun, la philosophie de l'être et les formules dogmatiques [5].

Il secondo indirizzo sottolineava l'urgenza di una apertura valorizzatrice verso la cultura moderna, apertura che non veniva prospettata come un cedimento agli errori moderni, dovuto alla volontà di «riguadagnare terreno» a qualunque costo, ma come uno sforzo, il più intenso possibile, per assimilare tutto il positivo (il vero, il buono e il giusto) presenti in quel moderno che non poteva essere «sfuggito di mano» alla Provvidenza. Non è infatti una coincidenza casuale che l'interpretazione più valorizzatrice delle istanze moderne sia collocata nel più generale contesto culturale di una maggior attenzione alla singolarità concreta in quanto tale, vista come modalità privilegiata del manifestarsi di Dio, sempre presente e operante nella storia[6]. Se questo è vero, siamo aiutati a impostare correttamente quello che ci pare un problema fondamentale per inquadrare correttamente lo spirito di questo indirizzo (che del resto non costituisce certo un blocco unitario). Il problema, cioè di stabilire in che misura si compongano e si rapportino l'esigenza di dialogo e di apertura al moderno, da un lato, e la riscoperta delle Fonti biblico-patristiche (il «ressourcement») e di una più incisiva, sintetico totalizzante, identità cristiana, dall'altro. L'importanza della questione non è in merito alla preferibilità, se così possiamo dire, di questo indirizzo sul neotomismo, quanto alla sua piena ortodossia cattolica, innanzitutto, e alla sua ultima compatibilità con le stesse più profonde istanze del tomismo. Al tempo stesso si rivelerebbe la profonda differenza di orientamento (pur non mancando delle affinità letterali) con il modernismo, per il quale invece al primo posto veniva la preoccupazione di adeguamento al moderno in quanto tale.

Non possiamo qui addentrarci in una approfondita esposizione del secondo indirizzo, ma ci pare di poter egualmente affermare con tranquillità che personalità come il cardinal Newman, J.A. Möhler (con altri esponenti della Scuola di Tubinga), e, nel nostro secolo, Blondel e i rappresentanti della cosiddetta Nouvelle Théologie, abbiano concepito la loro opera intellettuale innanzitutto come una riscoperta della piena identità del cristianesimo, e solo a partire da qui abbiano poi cercato di integrare elementi moderni, in quanto proficuamente assimilabili a quello. Sono essi stessi a dichiararlo esplicitamente e, ci sembra, a operare conseguentemente [7].

Che questo problema sia fondamentale lo si evince anche dall'importanza, che lo stesso Garrigou-Lagrange gli attribuisce nel già citato Le sens commun; forte è la sua insistenza in chiave antimodernistica, sul fatto che non bisogna assumere come punto di partenza il bisogno dell'uomo moderno, preoccupandosi di essere attuali: «Per sapere ciò che è il dogma, non sono i bisogni attuali delle anime che bisogna studiare, ma il dogma stesso» [8]. Bisogna quindi cercare Dio in se stesso, in quanto suprema Verità, e non in quanto Egli risponda a delle esigenze soggettive: Dio ci deve interessare «indipendentemente dalle conseguenze. che si possono dedurre dalla sua esistenza, dalla sua natura, dalla sua azione» (ibid., p. 268). Diversamente si rischierebbe di ridurre, come vorrebbe il modernismo, Dio e il cristianesimo ad una misura puramente umana, soggettiva, dimenticando, per spirito di orgogliosa autonomia, che «Dieu est Dieu, et que nous, par nous mêmes, ne sommes que néant» (p. 274). Invece siamo noi a dover conformarci alla misura di Dio, che ci chiede di riplasmare la nostra mentalità, per poterci assimilare a Sé (pp. 267- 270).

Per meglio capire il contesto prossimo della disputa è quindi opportuno accennare a come si poneva nei confronti di tale problema il gruppo di teologi della Nouvelle Théologie, a cui Blondel era particolarmente legato, e a cui venne accomunato nel corso della polemica. Non possiamo infatti dimenticare che nei medesimi anni Quaranta la Nouvelle Théologie veniva fatta bersaglio di attacchi sul problema del soprannaturale, su quello dell'Eucarestia, sul tema della evoluzione e sul problema del metodo teologico [9]. Secondo il padre Garrigou-Lagrange la radice di tutti gli errori di sostanza della nuova impostazione era proprio la nuova definizione di verità del Blondel (NTh, p. 143): solo così, del resto, si spiega perché Garrigou-Lagrange non abbia criticato tanto aspramente la posizione di Blondel fin dal suo apparire. La comparsa della Nouvelle Théologie, e soprattutto della sua pretesa di costituire una visione organica, aveva infatti allarmato non poco i teologi neotomisti.

Dopo la crisi modernista e la Pascendi l'unica contestazione seria al tomismo «ufficiale» era venuta da studiosi, come Rousselot, Gardeil e Chenu, che, pur discostandosi da certe interpretazioni, si rifacevano alla decisiva autorità del Dottore Angelico [10].

Con la Nouvelle Théologie le cose cambiavano: non solo il progetto di rinnovamento teologico era considerevolmente più ampio e sistematico dei tentativi dei decenni precedenti, coinvolgendo le tematiche sopra ricordate, ma il punto di riferimento non era più l'Aquinate, che, pur senza venir rifiutato, era collocato accanto ad altri tra cui spiccavano i Padri [11].

Era davvero giustificata, dobbiamo però chiederci, l'accusa di neomodernismo? A chi scrive sembra decisamente di no; e di tale giudizio possiamo vedere una conferma dal successivo sviluppo della Nouvelle Théologie, le cui tesi hanno largamente influito sul Vaticano, e due dei cui maggiori esponenti, de Lubac e von Balthasar, sono stati elevati alla dignità cardinalizia... Ci sia consentito questo riferimento ad un periodo successivo come elemento di ulteriore chiarificazione, dal momento che non crediamo sia di alcun interesse sapere se, soggettivamente, gli accusatori della Nouvelle Théologie fossero in buona o in mala fede accusandola di eterodossia, mentre è della massima importanza determinare se, oggettivamente, la Nouvelle Théologie fosse un fenomeno intrinsecamente ortodosso oppure no.

Ma possiamo anche interrogare i testi di allora. Ad esempio, in un articolo che funse da vero manifesto programmatico dei nuovi teologi troviamo una netta gerarchizzazione tra ritorno alle fonti, inequivocabilmente al primo posto, ed esigenza di valorizzazione di elementi positivi della cultura moderna: innanzitutto occorre che la teologia torni a «traiter Dieu comme Dieu», non cioè come un oggetto di analisi razionali, ma come «il Soggetto per eccellenza, che si manifesta quando e come vuole» [12].

Certo venivano poi affiancate altre istanze, di cui avrebbe dovuto tener conto il processo di rinnovamento della teologia: quella di rispondere alle esperienze dell'anima moderna (cioè di un più forte senso della propria soggettività e della propria storicità) e quella di un contatto con la vita, di un nesso tra pensiero ed esistenza concreta. Ma la logica, che sosteneva il discorso non era, ripetiamolo, quella di un adattamento al moderno in quanto tale: quello che veniva indicato era anzitutto (non, ovviamente in senso cronologico) una reimmersione del lavoro teologico nel testo e nello spirito della S. Scrittura (pp. 7 9), alla scuola di quei Padri che più si erano abbeverati alle sorgenti del Cristianesimo, unendo riflessione e santità (pp. 9 11), e nello spirito della liturgia, che educa a percepire la presenza operante di Dio in una concretezza tangibile (pp. 11 13).

Non di relativizzazione del Cristianesimo si trattava, dunque, ma anzi di riaffermazione piena del suo carattere totalizzante. Una conferma della inequivocabile priorità del «ressourcement» sulla dialogicità col moderno poteva essere tratta anche dalla impostazione che de Lubac dava in actu exercito ai suoi lavori, infarciti di riferimenti patristici, al punto che non a torto egli ha sempre potuto affermare che la sua opera non è consistita tanto nella elaborazione di una nuova teologia, quante nella riscoperta e nella riproposizione della Tradizione. Se quanto abbiamo detto risponde, come ci pare inoppugnabile, a verità, siamo aiutati a comprendere come i due «fronti» non fossero insanabilmente opposti.

2. Il dibattito

Dobbiamo sgombrare anzitutto il campo da una obiezione preliminare: era corretto imbastire una polemica a quarant'anni di distanza? Questo fatto fu in effetti rinfacciato al Garrigou-Lagrange, tanto più che, secondo noti interpreti di Blondel, vi sarebbe stata una evoluzione del suo pensiero dalla irruenza ed almeno apparente ambiguità de L'Action del 1893 alla più ponderata ed equilibrata “Trilogia” degli anni Trenta[13]. È un fatto però che lo stesso Blondel non rinnegò la formula del 1906, contestatagli dal Garrigou-Lagrange, anzi ne ribadì il valore, concedendo implicitamente che essa ben si prestasse a compendiare il suo pensiero sul tema della verità.

Tutta la polemica si incentrava su una frase, in cui si condensava efficacemente il pensiero di Blondel sul modo di intendere la verità, esposto in un articolo del 1906 [14]: «alla astratta e chimerica adaequatio speculativa rei et intellectus si sostituisce la ricerca metodica di diritto, l'adaequatio realis mentis et vitae»(DP, p. 235).

Vediamo di enucleare gli elementi implicati in questa formula, fatti oggetto di critica da parte del Garrigou-Lagrange: 1) l'idea di una sostituzione, e non di una semplice integrazione della vecchia formula, che non per nulla viene bollata nientemeno che come «abstraite et chimérique»; 2) l'inattingibilità originaria dell'essere per il pensiero, che non si conforma infatti con la res, con un oggetto fisso (ob-jectum postogli davanti e contemplabile in sé stesso, nella sua stabile essenza), con l'essere e le sue leggi immutabili, che non sono attinti se non in seguito all'impegno della libertà nell'azione; 3) il riferimento del pensiero alla vita: a questa infatti si conformerà la mente, avendo rinunciato alla pretesa di comprendere una volta per tutte una intelaiatura di essenze e di leggi immutabili, e accettando di crescere continuamente in un confronto continuo e globale con la concretezza del reale esistenzialmente esperito.

Secondo Garrigou-Lagrange tutto ciò portava alla grave conseguenza di misconoscere l'oggettività e l'immutabilità della verità, come già aveva fatto il modernismo, attirandosi la netta e decisa condanna del Magistero (NTh, p. 143; VE, p. 191). In effetti, intese nel modo in cui le interpretava il professore dell'Angelicum, tali tesi non potevano sottrarsi all'accusa di relativismo e di pragmatismo, il che le rendeva incompatibili non solo con il tomismo, ma con lo stesso dogma [15]. Cerchiamo allora di vedete se non sia possibile una comprensione «ortodossa» della proposta di Blondel.

1. Per quanto concerne il primo punto, quello della sostituzione della formula tomista, non si può negare che i termini usati dal Blondel fossero forti: la formula «adaequatio rei et intellectus», in quanto «astratta e chimerica», non è semplicemente completata, ma effettivamente riplasmata. Quella che Blondel propone non è una addizione estrinseca, ma una intima riformulazione: una ri-forma, nel senso forte di un cambiamento di forma sostanziale.

Resterebbe però da vedere se ciò sconvolga ed escluda, oppure ricomprenda inclusivamente il senso della definizione tommasiana: se cioè la nuova formulazione, formaliter diversa da quella precedente, non la contenga eminenter. È un fatto che Blondel, il cui temperamento intellettuale era poco incline ad un lavoro di paziente calibratura concettuale, non si preoccupò più di tanto di evidenziare tale sostanziale inclusività, limitandosi, nel corso della polemica in esame, a chiarire sinteticamente che egli non negava la validità della vecchia formula, ma solo la sua «sufficienza assoluta» [16], la stia esaustività. Nondimeno confidiamo di poter suggerire delle riflessioni, che aiuteranno a convincersi che il vero senso della tesi di Blondel include, piuttosto che escludere, quello tomistico [17].

2. Quanto al secondo elemento, a sostegno della sua interpretazione, Garrigou-Lagrange portava diverse frasi, tratte da altre opere di Blondel: «l'essere nella conoscenza, non è prima (...) della libertà di scelta» (Action, ed. 1893, p. 435); ne segue che «nessuna evidenza intellettuale, nemmeno quella dei principi, in sé assoluti ed aventi un valore ontologico necessario, ci si impone con una certezza spontaneamente ed infallibilmente costrittiva» (L'Etre et les étres, 1935, p. 415). Soltanto l'intervento del libero arbitrio, cioè soltanto l'azione, permette di raggiungere l'essere, la realtà extramentale ne concludeva Garrigou-Lagrange; dunque ciò che la pura conoscenza intellettuale attinge originariamente non è che fenomeno [18]. Si tratta di una interpretazione, che non rende pienamente giustizia al pensiero di Blondel?

Vi è stato chi ha cercato di difenderlo, interpretando le frasi su riportate, ed altre simili, come una concessione ad hominem, motivata dal contesto antimetafisicista contemporaneo: in un tale orizzonte, dominato dal presupposto kantiano della trascendenza gnoseologica del reale noumenico, non sarebbe più possibile svolgere un discorso sull'essere, che risulti persuasivo per i nostri concreti interlocutori [19]. Tanto vale dunque accettare la sfida, facendo come se la metafisica fosse illegittima e l'essere teoreticamente inattingibile; ciò nonostante sarà ancora possibile dimostrare che Dio, quale il cristianesimo lo presenta, è l'unico Significato esauriente e l'unico Fine appagante dell'esistenza umana[20]. Questa esegesi, sostenuta anche da studiosi benevoli verso Blondel, e ritenuta da parte neotomista l'unica che possa dare alle tesi del filosofo di Aix un senso ortodosso, rientra nello schema ermeneutico più generale, che vede nel blondelismo essenzialmente una apologetica [21]. Se non che Blondel ha sempre rifiutato di definirsi un apologeta, almeno nel senso specifico del termine: non ha concepito la sua opera come strumento ausiliario di una filosofia sistematica, ma come una vera e propria filosofia; è Maritain stesso ad individuare in questa pretesa il vizio di fondo del blondelismo [22].

Del resto, perché non credergli, quando Blondel stesso, lungi dal relativizzare le sue asserzioni sulla necessità di accondiscendere alla cultura antimetafisicista contemporanea, le pone come vere in se stesse, potremmo anche dire metastoricamente? Piuttosto, il motivo che Blondel adduce per spiegare la sua soluzione è la necessità di comprendere il fenomeno dell'incredulità: per ribellarsi all'Essere occorre prima essersi ribellati all'essere e alle sue leggi, che, seguite docilmente, non potrebbero che condurre a Dio. Egli non è tanto interessato alla natura dell'intelligenza, astrattamente considerata, quanto al suo concreto stato di esercizio, quale storicamente (cioè nell'attuale economia, segnata dal peccato e dalla Redenzione) si dà [23]. Solo se sì tiene conto di questa prospettiva, si può capire come Blondel non rifiuti la metafisica (per quanto discutibile possa essere quella da lui elaborata, soprattutto in L'Etre et les êtres), ma la concepisca in un'ottica di approccio concreto al reale[24], e come egli non misconosca l'oggettività e l'immutabilità dei principi supremi dell'essere, né si ponga il problema della loro conoscibilità, quanto piuttosto quello, per così dire, della loro riconoscibilità, cioè del tipo di certezza soggettiva, che si può avere a loro riguardo. E sempre in questa prospettiva, che si può comprendere l'importanza, attribuita dal Blondel alla libertà e alla connaturalità nel dinamismo conoscitivo, come pure l'ultima unitarietà (inclusiva di naturale e soprannaturale) del Conosciuto supremo.

Ma una impostazione esistenziale era già propria di tutta la tradizione patristico-agostiniana: si può riagganciare interamente ad essa il pensiero del Blondel, per cui egli si limiterebbe a sottolineare l'incompletezza della conoscenza naturale? O non si spinge egli oltre tale tradizione?

Secondo il Garrigou-Lagrange, come secondo altri filosofi neotomisti, Blondel si sarebbe staccato da quella in quanto antirealista: la conoscenza naturale non sarebbe per lui incompleta e imperfetta, ma oggettiva; sarebbe invece, ben più radicalmente, soggettiva, in quanto incapace di attingere l'essere[25]: l'essere è attinto solo nel coinvolgimento congiunto di tutte le facoltà, intelletto e libertà; e a far «scattare» questo coinvolgimento è l'opzione («l'essere nella conoscenza non è prima... della libertà di scelta», della opzione). È chiaro che per Garrigou-Lagrange il problema affrontato da Blondel è quello della verità, e non quello della certezza, è quello cioè della conoscibilità oggettiva, e non quello della riconoscibilità dell'essere e dei suoi primi principi da parte del concreto Soggetto[26]. Nella sua esegesi Blondel nega che l'essere sia conosciuto immediatamente (ciò che appunto caratterizza la filosofia dell'essere, cfr. De veritate q. I, a. 1: «Illud quod primo intellectus concipit... est ens») e necessariamente, cioè indipendentemente da qualunque opzione. Il che rende evidentemente inaccettabile il blondelismo: se infatti l'intelligenza non conosce il reale, anteriormente all'opzione, su che cosa farà leva quest'ultima, per non essere arbitraria [27]?

Nella sua difesa di Blondel, il de Solages aveva un bel ribattere che quella di cui parlava il filosofo di Aix era una «opzione intellettuale» (HTh, p. 78); il problema non ne veniva perciò risolto: se tale opzione intellettuale fosse universale e necessaria, non sarebbe più una opzione; se essa si producesse solo in una parte del genere umano, resterebbe da spiegare perché ciò accada; non si potrebbero dare che due soluzioni: o sì tratterebbe di un caso (il che sarebbe di offesa alla Provvidenza), o sarebbe il frutto di una libera iniziativa del soggetto e dunque si tratterebbe di una vera opzione, di un atto di libero arbitrio (IMD, pp. 127 sgg.). Dunque, se fosse esatto il presupposto interpretativo del Garrigou-Lagrange (non ben individuato, del resto comprensibilmente, dato il carattere concitatamente polemico dell'articolo di replica, dal de Solages), ne seguirebbe che per Blondel tutto l'edificio filosofico, anzi filosofico teologico, poggerebbe sulle sabbie mobili di una immotivata ed arbitraria opzione. Il che non è poco...

Noi crediamo però che sia più corretta l'interpretazione data dal Bouillard [28] e che essa sola riesca a rendere ragione del più volte riaffermato realismo del Blondel (lo stesso Garrigou-Lagrange gli riconosce una intenzione, una volontà, un «effort» di realismo, IMD, 127, il che non è senza una venatura di grottesco). Secondo Bouillard ciò che Blondel nega non è la «conoscenza dell'essere», ma «l'essere nella conoscenza» soggettivamente piena, pienamente attivata, compiutamente dispiegata, anteriormente all'opzione, all'impegno della libertà nell'azione. «Blondel - spiega Bouillard - subordina all'opzione (...) non il valore oggettivo della nostra rappresentazione», della nostra conoscenza, che necessariamente attinge l'essere, il reale, «ma il valore spirituale della conoscenza all'interno del nostro destino concreto. Mediante l'opzione negativa ci si priva del possesso della realtà conosciuta, senza per ciò sopprimere la conoscenza della realtà [29]. L'essere viene quindi immediatamente e necessariamente conosciuto, anteriormente ad ogni atto di libero arbitrio, ma non viene necessariamente riconosciuto; viene necessariamente colto, non necessariamente considerato; la verità dei suoi principi è oggettivamente fuori discussione, ma la certezza a loro riguardo può in qualche modo variare, in rapporto all'atteggiamento dell'uomo integrale di fronte a Dio, una ribellione al quale implica un annebbiamento della stessa conoscenza naturale.

Certo, questo non basta a dissipare un ultimo dubbio: anteriormente all'opzione, anzi indipendentemente dall'opzione, si dà, per quanto debole, una certezza dell'essere e delle sue leggi immutabili, su cui possa ragionevolmente poggiare la scelta per Dio? Innegabilmente le formule, con cui Blondel ha espresso il suo pensiero su questo punto ci sembrano decisamente infelici, e per molti aspetti inaccettabili. Non sarebbe tuttavia giusto non cercare l'intentio profundior, la verità esperienziale potentemente intuita e mal concettualizzata dal Blondel. Intendiamo dire cioè la percezione della rinascita, che comporta anche per l'intelligenza la conversione. Ci sembra si possa richiamare a questo proposito l'espressione di un mistico: «Io, prima di conoscere Te, non esistevo». Espressione sicuramente esagerata, ma in cui traspare l'esperienza reale di una nuova nascita, in un rapporto totalizzante e trasfigurante con il Mistero del Dio vivente. In confronto a questa vita nuova, la vita precedente appare non vita. Così, sul piano gnoseologico, sembra a Blondel che le certezze naturali quasi non esistano, in confronto alla Pienezza soprannaturale, che richiede un coinvolgimento integrale del soggetto, mente e cuore. Indubbiamente meglio avrebbe fatto il Blondel a specificare che le evidenze naturali impallidiscono, come grado di certezza (ma non svaniscono in nessun caso) se rapportate alla certezza soprannaturale. Invece egli lascia un certo margine di oscurità alle sue spiegazioni. Resta nondimeno che la giusta prospettiva, in cui leggere la sua tesi, ci pare appunto questa, per cui egli non può essere correttamente avvicinato, come faceva Garrigou-Lagrange, a Sesto Empirico (VE, pp. 187 e 196).

3. Veniamo infine al terzo punto, e chiediamoci come vada intesa la «vita», di cui parla Blondel nella sua formula, al posto della tradizionale «res».

Secondo Garrigou-Lagrange, mentre «res» indica da un lato stabilità, permanenza, solidità strutturale e da un altro lato oggettività, inseità, indipendenza dalla soggettività, il concetto blondeliano di vita è invece caratterizzato da instabilità, fluidità, perpetuo mutamento, da un lato, e da relatività alle esigenze del soggetto, dall'altro. In effetti, anche se il Professore dell'Angelicum non le citava, si trovavano nell'articolo del 1906 molte espressioni, che potrebbero avvalorare tale interpretazione, come le seguenti: «Né in noi, né fuori di noi, se non per una finzione indispensabile praticamente, ma filosoficamente illegittima non si giunge per via speculativa a degli oggetti fissi, distinti e irriducibili, a degli atomi di coscienza e di sostanza» (DP, p. 232). «Poiché vi è sempre del nuovo nel mondo, non è possibile cogliere l'essere in riposo, in una definizione pura mente statica. (...) La filosofia, fin dal suo inizio, tende al movimento incessante e non cerca fissità se non nell'orientazione del suo cammino» (DP, p. 233).

Nondimeno anche qui si impongono delle precisazioni, anzitutto per l'aspetto di permanenza, di immutabilità, e poi per quello di oggettività.

a) Connesso al carattere di evolutività del reale creato, è la concezione blondeliana della unitarietà di esso. Non vi è dubbio che Blondel, anche in L'Etre et les étres, adotti una prospettiva metafisica discosta da quella tomista, sotto entrambi i profili: per il filosofo di Aix l'essere è cementato da una unità ben maggiore di quella postulata dalla dottrina tomasiana dell'analogia, al punto da rendere problematico il concetto di una molteplicità di sostanze quali centri autonomi e consistenti di realtà[30]. E nell'articolo in esame egli combatte una concezione analitica che frammenta la realtà in «elementi» stabili e nettamente circoscritti, e la definisce invece «fatta dalla sintesi delle relazioni multiple» (DP, p. 246).

Al tempo stesso che fortemente unitario, l'essere finito vi risulta più «fluido» che nella filosofia tomistica; sempre nell'articolo del 1906 possiamo leggere che «la vita ( ... ), nell'equilibrio perpetuamente instabile del suo divenire, tende incessantemente ad adattarsi al suo ambito (milieu) totale» (p. 229); poche pagine dopo Blondel vi parlava di un «fieri totale» (p. 235), il cui riconoscimento permette di recuperare l'istanza positiva dell'evoluzionismo e del moderno valore della storicità.

Anche in questo caso si deve riconoscere una certa infelicità di espressione, del resto comprensibile in un pensatore che, ponendosi al di fuori di una Scuola consolidata, doveva sobbarcarsi il non lieve onere di coniare, o riplasmare, un linguaggio adeguato alla sua originale elaborazione. Tuttavia anche in questo caso ci sembra che la sostanza di quanto Blondel affermava sia pienamente compatibile con la tradizione cattolica. Infatti tanto l'unitarietà, quanto l'evolutività del reale vanno compresi non in rapporto preferenziale con dottrine immanentiste (Hegel, Spencer, Bergson), con cui pure non mancano affinità, ma piuttosto tenendo conto del nesso intrinseco, che Blondel concepisce, tra natura e soprannaturale[31].

Il motivo per cui il reale è percepito (si tratta infatti più di una percezione, che di una rigorosa concettualizzazione) come fluente ed instabile, non è certo quello di una assolutizzazione eracliteo hegeliana del divenire, sintesi sempre nuova dei contraddittori, come insinuava il Garrigou-Lagrange (VE, pp. 186 e 188), per il quale Blondel sostituirebbe alla filosofia dell'essere una filosofia dell'azione, che darebbe il primato del divenire. Piuttosto vi è nel Blondel la potentemente religiosa (paolina) intuizione della provvisorietà dello sckèma tou kósmou toútou, in cui si attua progressivamente una grandiosa costruzione, e in cui si delinea un Disegno, che si compirà solo nella pienezza escatologica. Se non dobbiamo cristallizzare il reale, attribuendogli una definitività che non possiede, è perché «la curva della nostra esistenza è appena abbozzata: nondum apparuit quid erimus» (DP, p. 233).

è poi evidente che il termine di tale evoluzione non è in nessun modo una perfezione sociale o culturale intrastorica, in cui l'individuo confluisca disintegrandosi, ma è proprio il Fine soprannaturale cristiano, a cui ogni persona è liberamente chiamata. L'accentuazione della temporalità, infine, come rivelativa della precarietà umana, ma anche come possibilità di una costruttività positiva nell'istante irripetibile, non era forse un tema ben presente al Dottore di Ippona, come a molta letteratura cristiana, non solo patristica[32]?

Così anche l'attenuazione della consistenza sostanziale degli enti creati, riannodati intorno ad un Centro unitario, ci pare avvicinabile, ben più che ad un monismo panteistico, alla impostazione agostiniano francescana della dottrina dell'analogia, decisamente più unificante di quella tomista[33]. Anche qui la radice della posizione blondeliana è la stretta connessione tra natura e soprannaturale: il secondo livello permea di sé il primo.

Ma per comprendere nel modo più completo, e dunque corretto, il senso della concezione blondeliana, occorre ricordare che egli non separa mai un discorso sul reale in se stesso da un discorso sul reale per il soggetto: la vita si istituisce appunto come inscindibile polarità di ambito oggettivo e soggettività. E se già la prospettiva, non semplicemente filosofica, ma filosofico teologica di Blondel può aiutate a dissipare non pochi equivoci, questa ulteriore avvertenza potrà ancor meglio fard discernere il suo spirito non modernistico. Quando Blondel asserisce, con nettezza assoluta, di non aver «mai messo in dubbio ( ... ) in alcun ambito il carattere immutabile della verità» (C, p. 210), gli si può ben credere: se c'è della evoluzione, della fluidità, è perché c'è crescita, un cammino personale di crescita (non demandabile ad altri, non eludibile attingendo d'un sol colpo, e senza verifica individuale, ad un deposito astorico). E in questo cammino, di verifica personale e di assimilazione della Verità e della Vita, non la verità cresce, ma la nostra conoscenza di essa [34].

Ancora una volta la sua è una prospettiva esistenziale, e per lui il problema centrale dell'esistenza è giungere alla piena partecipazione alla vita divina, in Cristo. La sua concezione della verità non sarebbe estensibile alla matematica, o alle scienze sperimentali; egli non parla del sapere, in sé considerato, come edificio progressivamente costruito da un lavoro collettivamente cumulativo, e impersonalmente valido. L'Oggetto che gli importa conoscere, e in rapporto al quale elabora la sua nuova definizione di verità, è ultimamente la Verità personale, il Cristo[35]. E chi potrebbe negare che di fronte a tale Oggetto sia richiesto un cammino? Il Dato di fede non può essere «tenuto in frigorifero», come già ammoniva, contro l'intellettualismo socratico, Kierkegaard, ma deve essere continuamente verificato; similmente S. Bernardo, autore molto apprezzato da Blondel, diceva che nella vita di fede l'immobilità è esclusa: o si sale, o si scende. Nel dinamismo orientato al Fine soprannaturale, che è poi la piena attuazione del nostro essere umano, la via è quella di una continua crescita e di una continua verifica del Conosciuto, in cui «volta a volta la vita precede e prepara l'idea, e l'idea precede e stimola la vita» (DP, p. 236).

b) Se, come abbiamo appena visto, la formula blondeliana di verità può essere interpretata in modo pienamente compatibile con la tradizione, quanto all'aspetto di immutabilità del vero, potrà dirsi altrettanto per l'aspetto di oggettività? A questo riguardo occorre distinguere il contenuto del pensiero del Blondel dal metodo con cui esso viene fondato. Circa il primo livello Garrigou-Lagrange non contestava la intrinseca validità delle tesi blondeliane (VE, pp. 189 90), che sono in sé abissalmente lontane da un antropocentrismo prometeico di tipo sartriano. È vero che l'azione promana dalla soggettività, e trae anche dalle esigenze di questa (oltre che .dalla riflessione intellettuale, cfr. DP, pp. 226 7), il suo motivo fondante. Ciò però avviene secondo una logica ben determinata: non si tratta di capriccio, o di istintività. Al di sotto dei desideri della parte sensitiva e degli stessi progetti sempre parziali della «volonté voulue», sta, come è noto, la spinta profonda e stabilmente strutturata della «volonté voulant», necessariamente orientata verso il Bene totale, verso l'Assoluto. Queste «esigenze della vita» non sono qualcosa di camaleonticamente sfuggente, o di indefinitamente evolvibile, o di modificabile ad arbitrio del soggetto; sono qualcosa di strutturato e di «oggettivo». Ma questo, lo ripetiamo, è così chiaro, che non vi sono state contestazioni al proposito.

Ciò che invece il Garrigou-Lagrange contestava al Blondel, non era di non concepire la volontà come orientata verso il Bene oggettivo, quanto piuttosto il fatto di non fondare teoreticamente, metafisicamente, tale convinzione: «l'etica ricordava il professore domenicano richiede un fondamento ontologico, la nozione di bene suppone infatti quella dell'essere e del vero» (IMD, p. 130). Manca quindi, secondo tale critica, la motivazione adeguata, persuasiva, per una umanità la cui facoltà suprema è la ragione, di un discorso etico, che pure si pone un obiettivo giusto ed ortodosso. Quella che il Blondel dava era giudicata una fondazione «soggettivamente sufficiente», ma non «oggettivamente sufficiente» (VE, p. 194). Si vede come, con questo tipo di obiezione, siamo ricondotti a quanto più sopra detto, circa il secondo punto.

3. Considerazioni conclusive

Possiamo ora dire che la nuova definizione di verità proposta dal Blondel era (ed è) compatibile con quella tomista?

Certamente esse non sono identiche; non sono, per così dire coestensive. Per un certo aspetto è più estensiva la definizione tradizionale, in quanto essa vale anche per il sapere scientifico, nel senso più lato del termine (sarebbe assurdo dire che un teorema geometrico è vero, perché esistenzialmente esperito, perché verificato nella vita!). La definizione blondeliana invece è adatta soltanto per un tipo di conoscenza sapienziale e personale (che non significa però sentimentale o approssimativa, e che è, per ognuno, la conoscenza più importante: «che giova all'uomo possedere il mondo, se poi perde o rovina se stesso?»); in questo senso essa si presta più a descrivere una traiettoria di crescita nella fede, che non il lavoro della teologia.

D'altro lato, e cioè circoscrivendo il campo alla verità personale, esistenziale, è la definizione blondeliana ad essere ricomprensiva di quella tomistica. La mens infatti include e non esclude, l'intellectus: oltre al polo del concetto e della discorsività, essa comprende quello della connaturalità, senza che i due fattori si elidano vicendevolmente. La vita a sua volta include, piuttosto che escludere, la res: oltre all'ossatura strutturale e universale, essa indica la concrezione particolare, in cui la realtà ci si dà, la res nel suo esistenziale darsi al soggetto concreto integrale.

Riteniamo quindi che la risposta debba essere positiva. Che il modo di esprimersi di Blondel fosse da un punto di vista di precisione scolastica, in molti casi infelice è un dato evidente, come abbiamo più volte ricordato. Ma sulla sua personale ortodossia, anzi, sull'intensità della sua vita spirituale, neppure i suoi più tenaci avversari hanno nutrito dubbi. Come conciliare allora tale «bontà» morale e una profonda intelligenza, che non si potrà certo negare ad uno dei maggiori filosofi cattolici del Novecento, con un esito eterodosso? Come limitarsi a riconoscere, senza cadere nel grottesco, una sua buona intenzione?

Si potrà allora dire che le preoccupazioni del Garrigou-Lagrange fossero del tutto infondate? Senza dubbio nocque in misura rilevante ad una adeguata comprensione delle tesi blondeliane (come pure di quelle della Nouvelle Théologie) il ricordo traumatico della crisi modernista. E a questo proposito mancò forse in Blondel uno sforzo sufficiente ad evidenziare una sua netta differenziazione dal modernismo. Mancò, ancor più, una comunanza di linguaggio: il pensiero di Blondel mal si prestava ad essere «tradotto» nel più rigoroso strumentario concettuale e lessicale della Scuola.

Ancor oggi (com'è inevitabile) si dibatte sulla ragione e sulla verità, e questa Rivista ha recentemente ospitato un dibattito tra fautori della «forza» e fautori della «debolezza» della ragione. A chi scrive sembra che la disputa, di cui abbiamo parlato in questo articolo, possa offrire qualche spunto in merito. Tanto in ordine al metodo, che si mantiene su un livello teoreticamente davvero elevato, cogliendo con sicurezza i punti nodali della questione; quanto in ordine ai contenuti, che restano sicuramente ortodossi, e si inseriscono nell'alveo della bimillenaria tradizione cattolica: se è vera l'interpretazione, da noi proposta, non si potrebbe accomunare , Blondel al «pensiero debole», né la posizione del Garrigou-Lagrange, che fu oltretutto un mistico di tutto rispetto, potrebbe essere assimilata ad un certo modo razionalistico di intendere la metafisica. I due grandi «nemici» sono, a ben guardare, più vicini di quanto non sembri.

note

[1] L'articolo che dà inizio al dibattito è La nouvelle théologie où va-t-elle?, in «Angelicum» («Ang.»), 1946, pp. 126-45 (NTh); ad esso rispose p. Bruno de Solages con Pour l'honneur de la Théologie, in «Bulletin de Littérature ecclésiastique», 1947, pp. 64-84 (HTh); p. Garrigou-Lagrange prosegui con altri articoli, che polemizzavano anche con la definizione blondeliana di verità, senza però più trovare risposta su tale aspetto: si tratta di Verité et immutabilité du dogme, in «Ang.» 1947, pp. 124­-39; e Necessité de revenir à la définition traditionnelle de la vérité, in «Ang» 1948, pp. 185-98 (rispettivamente IMD e VE).

[2] Ovviamente si tratta di una semplificazione: non ignoriamo che nessun pensiero classificabile nella prima posizione ha mai negato l'esistenza di valori positivi nella modernità; e d'altro lato nessun esponente dell'atteggiamento, diciamo così dialogico, si è nascosto i limiti, le storture e i rischi, anche gravi, della parabola storico-­culturale moderna.

[3] Come ha messo in luce Maritain, il soggettivismo gnoseologico, per il quale è impossibile alla singola persona giungere alla verità assoluta (e quindi al bene e al giusto assoluti) è alla radice del totalitarismo, che fagocita nel grande flusso della Storia e nell'onnivoro Leviatano dello Stato la persona, privata di un punto trascendente su cui poggiare, per poter giudicare e resistere. Cfr. Trois Réformeurs (Rousseau è appunto visto come colui, che avendo sganciato l'umanità da un riferimento oggettivo all'assoluto, la consegna al progetto totalizzante della Volontà generale). Con maggior organicità tale tesi si ritrova in Moral Philosophy (New York 1964) a proposito di Hegel, Marx e Comte; cfr. anche Man and the state (Chicago 1951): la negazione della suprema sovranità di Dio porta all'adorazione di falsi idoli immanenti.

[4] è una verità evidente ed elementarissima; e tuttavia, come essa è praticamente da noi tutti elusa quasi ad ogni istante (il peccato non presuppone forse una messa tra parentesi del riconoscimento della realtà, e di Colui che è la Realtà?), così si è giunti a teorizzazioni che appunto negano, più o meno esplicitamente, quel dato fondamentale: il modernismo, in alcune sue frange rappresenta un esempio di ciò (cfr. Denz. 3484 segg.). Per cui non immotivata appare la preoccupazione di molti neotomisti, dal già citato Maritain (strenuo assertore, da un capo all'altro della sua produzione, da Distinguer pour unir a Le paysan de la Garonne, di un franco realismo gnoseologico) al de Tonquédec (lui pure tenace avversario di ogni cedimento all'antirealismo: cfr. La critique de la connaissance, Paris 1929) a Louis Noél (Notes d'épistémologie thomiste), oltre, ovviamente, allo stesso Garrigou-Lagrange, per non citare che alcuni.

[5] Ed. Beauchesne, Paris 19091 (Nouvelle Libraire Nationale, Paris 19223, da cui citeremo con la sigla SC).

[6] Cfr. HENRI DE LUBAC, Catholicisme, ed. du Cerf, Paris 1938 (tr. it. Milano 1978, da cui citiamo), pp. 98-9: «Dalla prima creazione fino alla consumazione finale, attraverso le resistenze della materia e le resistenze più gravi della libertà creata ( ... ) un medesimo disegno divino si compie. ( ... ) La razza umana intera ( ... ) con un grande movimento che persiste attraverso la varietà sconcertante dei suoi gesti ( ... ) sostenuta dalle due mani di Dio, il Verbo e lo Spirito, queste due mani, che nonostante i suoi errori non l'hanno mai abbandonata completamente, si incammina verso il Padre suo. La volontà divina, che guida tutto, la conduce infallibilmente al porto». E ancora nel medesimo testo (p. 196): «Cristo è il "maestro del coro" intorno al quale si ordina tutta la storia, come la lira cosmica vibrava tutta sotto il plettro di Apollo. Le cose antiche e nuove si rispondono, e, venendo tutte da uno stesso Autore, formano nella loro varietà contrastante una melodia unica, ex multis et contrariis sonis subsistens». Il che però non porta a conseguenze sincretistiche (ibid., pp. 224 segg.). Analoga prospettiva in VON BALTHASAR, Theodramatik Il. Die Personen des Spiels. vol. 1°, Der Mensch im Gott, Johannes Verlag, Einsiedeln 1976. L'attenzione alla molteplice varietà storica in entrambi i teologi, che sono i più profondi della Nouvelle Théologie, è così motivata come attenzione alla possibilità di cogliere in essa dei raggi dell'unico Sole divino, la cui rivelazione piena ed essenziale resta comunque l'evento di Cristo, custodito dalla Chiesa.

[7] Cfr. DE LUBAC (Paradoxes, Paris 1959): «Prima che possa essere adattato nella sua presentazione alla generazione moderna, è assolutamente necessario che il cristianesimo sia se stesso. ( ... ) Il grande sforzo consiste dunque nel ritrovare il Cristianesimo nella sua pienezza e nella sua purezza». Il criterio ultimo per giudicare tutto non è infatti l'adeguamento alla storia in quanto tale, ma l'evento salvifico di Gesù Cristo, «Verbo fatto carne, veramente entrato nella nostra storia, " Presenza su cui tutto si fonda, a partire dalla quale tutto si dispiega, nella quale tutto si compie (J. Mouroux, Le mystère du temps, 1962) "; Gesù Cristo, nel quale e per il quale " tutto è compiuto " (Gv 19, 30)» (in Rivelazione e senso dell'uomo, Jaca Book, Milano 1985, p. 43). Diversamente, se si pensasse ad una «storia universale della salvezza», nel senso di identificare la storia come tale con la storia della salvezza, facendone un adeguato ed esaustivo " luogo teologico ", si rischierebbe di «sommergere il grande asse della Rivelazione in un amorfo evoluzionismo» (ibidem). Un giudizio molto netto sugli errori della modernità (dì un certo tipo di modernità) lo si trova ad es. ne Le drame de l'humanisme atée, Paris 1944; I rischi che il cattolicesimo corre sforzandosi di adeguarsi al moderno in quanto tale (e quindi acri­ticamente) sono poi chiaramente denunciati in Affrontements mystiques, ed. Tém. chr., Paris 1950, tr. it. Borla, Torino 1964, in Athéisme et sens de l'homme, ed. du. Cerf, Paris 1968, e ne La posterité spirituelle de Joachime de Flore, ed. Le­thielleux, Paris-Namur 1979-81 (2 voll.). Rilievi simili si potrebbero fare a proposito di von Balthasar, che specie nella sua produzioni post-conciliare ha aspramente criticato gli eccessi della teologia «progressista», da cui ha tenuto a distanziarsi ben più che dal tomismo (cfr. Klarstellungen, Herderbuecherei, Freiburg 1971, come pure i molti interventi di puntualizzazione su Communio, la rivista da lui cofondata, e su altre riviste).

[8] SC, p. 267; infatti, prosegue Garrigou-Lagrange, «les ames d'aujourd'huì comme celles d'autrefois sont créées ( ... ) pour connaître et pour aimer plus qu'elles mêmes ( ... ) cette divine Verité». Dobbiamo così «servir Dieu, et non pas nous servir de Dieu» (ibidem). Quest'ultimo è invece l'atteggiamento del pragmatismo, e in generale quello - rimarcava Garrigou-Lagrange - del pensiero moderno, soggettivisticamente incapace di guardare alla realtà in se stessa. E a tale atteggiamento si sarebbe assimilata anche la Nouvelle Théologie, avendo a fondamento filosofico quel Blondel che cercava di scoprire nel livello naturale, immanente, soggettivo, un bisogno, una domanda, a cui il soprannaturale sarebbe stata l'unica adeguata risposta; col rischio di dare un fondamento piuttosto soggettivo che oggettivo al cristianesimo: è ragionevole, umano, plausibile credere, non in base all'esplorata oggettività dell'essere, ma in base ad un bisogno del soggetto.

Una breve nota critica: senza voler dire che la posizione del Blondel sia completa (e completamente soddisfacente), ci pare che sia ingeneroso applicargli l'appellativo di soggettivista: quel bisogno di cui egli parla non è qualcosa di superficiale, o di arbitrario; appartiene alla soggettività, certo, ma questa ha una natura stabile ed universale, ed è essa pure (anzi in un senso più proprio del cosmo corporeo) essere. In fondo tale bisogno, tale domanda, altro non è che quel «desiderium naturale videndi Deum», di cui la tradizione patristico-medioevale (S. Tommaso compreso) aveva parlato, senza scandalizzare nessuno, come andavano dimostrando nei decenni tra le due guerre, il De Broglie, J. Laporta, O'Mahony, e soprattutto de Lubac (con Surnaturel. del 1946).

[9] Tutti questi temi erano toccati dal Garrigou-Lagrange in NTh; il riferimento (solo implicito nell'articolo) era alla nuova concezione del rapporto tra natura e soprannaturale, proposta (come ritorno ad una verità tradizionale, dimenticata dalla Seconda Scolastica e non dunque come una innovazione) da de Lubac nel già citato Surnaturel, concezione che stabiliva tra i due ordini un nesso molto più intrinseco e unitario di quello sostenuto dai grandi Commentatori moderni dell'Aquinate. Ancora de Lubac era attaccato per la sua teologia eucaristica, che tendeva a ridimensionare l'accentuazione sulla presenza reale, per date spazio anche alla dimensione ecclesiale- comunitaria del Sacro Banchetto (in Corpus mysticum, Paris 1944). Sul problema della Evoluzione, i «nouveaux» venivano accumunati alla posizione di Teilhard de Chardin, che in effetti era in buoni rapporti personali con loro (ma il cui pensiero, ci sia consentito dire, non appare identificabile con la Nouvelle Théologie); cfr. La pensée religieuse du P.Teilhard de Chardin, Paris 1962 (tr. it. Milano 1983). Circa il metodo teologico, veniva rimproverato ai «nouveaux» di misconoscere la funzione della ragione concettuale-argomentativa a favore di altri fattori (il dato storico-positivo, il simbolismo e la connaturalità) in modo tale da compromettere la possibilità di costruire un sistema teologico, accidentalmente perfettibile, ma permanentemente valido nella sua sostanza. Cfr., per una contestualizzazione del problema, i segg. articoli: M. D. Chenu. Position de la théologie, in «Rev. de Sc. Ph. Th.», 24 (1935), pp. 232-57: R. GAGNEBET, Un essai sur le problème théologique», in «Rev. Thom.», 1939. pp 105-45 (il quale peraltro polemizzava piuttosto contro L. CHARLIER, aurore di un Essai sul le problème théologique, 1938, la cui posizione era globalmente prossima a quella dello Chenu); M. LABOURDETTE, La théologie intelligence de la foi, «Rev. Thom.», 56 (1946), pp. 5-44; e soprattutto la raccolta Dialogue théologique. ed. St. Maximin-les-Arcades 1947, in cui si trovano gli articoli polemici sul tema del metodo teologico tra i gesuiti di Lione, i «nouveaux théologues» de Lubac, Daniélou, von Balthasar, Bouillard e Fessard, e i domenicani francesi della «Révue Thomiste», Labourdette e Nicolas.

[10] Ci riferiamo agli studi del Rousselot sul ruolo dell'intelligenza in S. Tom­maso, miranti a superare quella che gli si presentava come una forzatura unilateralmente intellettualistica operata dagli interpreti moderni del Doctor Communis: Les yeux de la foi, in «Rech.Sc.Rel.» 1910; e L'intellectualisme de Saint Thomas, Paris 1908. In direzione analoga andava muovendosi anche p. Gardeil, che ispirò la Scuola di Le Saulchoir, fautrice di una rivisitazione del tomismo, capace di farlo meglio interagire con la cultura contemporanea, e che re Le donné révélé et la théologie, 1910, faceva spazio, come fattori del metodo teologico, accanto alla ragione concettuale-discorsiva, a «tutte le energie umane di conoscenza» (ibid., p. 162). Abbiamo già citato poi il p. Chenu, uno dei maggiori esponenti (con il p. Congar) della Scuola di Le Saulchoir, il quale, pur considerandosi discepolo di S. Tommaso, criticava un modo di intendere la teologia, invalso presso molti neotomisti, che gli appariva come aridamente razionalistico (cfr. oltre all'articolo citato sopra, Une école de théologie: Le Saulchoir, 1937. ed. fuori commercio, ried. dalla du Cerf, Paris 1985, ora anche in trad. it.).

[11] Per quanto concerne l'ampiezza e la sistematicità del progetto, bisogna ricordare le due collane Sources chrétiennes e Théologie, entrambe curate dai lionesi, che fornivano alle loro idee una notevole risonanza nel mondo teologico ed ecclesiastico. Non si faceva mistero poi che il punto di riferimento privilegiato fossero piuttosto i Padri, latini e greci (S. Gregorio di Nissa, S. Massimo il Confessore, lo stesso Origene, in quanto fondatore della esegesi simbolica della Scrittura), che non S. Tommaso. Anche se va detto che de Lubac, principale ispiratore della Nouvelle Théologie, cercherà ovunque possibile di evidenziare il suo accordo con l'Aquinate, accusando semmai i suoi detrattori di non essere davvero fedeli (ad es. sulla questione del soprannaturale, già accennata) al loro maestro.

[12] L'articolo è Les orientations présentes de la pensée religieuse, del p. J. Daniélou, in «Etudes», aprile 1946, pp. 5-21. La frase citata è a p. 7.

[13] Cfr. Attualità filosofiche (AF), Atti del 3° convegno di studi filosofici cristiani tra professori universitari (16-8.9.1947, Aloisianum di Gallarate), ed. Liviana, Padova 1948, pp. 315-20 (in tali pagine, dal titolo «Il primo e l'ultimo Blondel», il prof. Stefanini sosteneva appunto la tesi che il filosofo francese avrebbe nelle opere della maturità perfezionato il suo pensiero, rendendone evidente la piena ortodossia, e affiancando, al momento della «indigenza», quello della «consistenza» del livello naturale). Su questo problema cfr. anche R. CRIPPA, Profilo della critica blondeliana, ed. Marzorati, Milano 1962 (PC), pp. 41-57. Secondo la maggior parte dei suoi studiosi, comunque, il pensiero di Blondel non avrebbe subito dei mutamenti di sostanza. A questo proposito, almeno per quanto concerne il tema della definizione di verità, basterebbe leggere la sua risposta alle accuse del Garrigou-Lagrange, datata 12-3-47 (in «Ang.», 1947, pp. 210-1; a tale risposta, Garrigou-Lagrange replicava, nelle segg. pp. 212-4; cit. con C).

[14] «Le point de départ de la recherche philosophique», in Annales de Philosophie chrétienne, 1906, pp. 225-49 (DP). L'articolo si suddivideva in due parti in qualche modo complementari, a cui si potrebbe dare come titolo (cosa che Blondel non fece) rispettivamente «La speculazione ha bisogno della prassi» (intellectus quaerens actionem), pp. 227-40, e «La prassi ha bisogno della speculazione» (o actio quaerens intellectum), pp. 240-9. Di fatto però la parte che più appare curata, e densa di riflessioni originali, è la prima. In essa Blondel affermava che il punto di partenza della filosofia non può essere parziale (il sentito, o la materia, o l'idea), ma deve essere un punto di vista totalizzante e sintetico (pp. 227-32); che tale punto di vista impedisce di fissare speculativamente alcuni oggetti accanto, o sopra, ad altri, obbligando invece a mantenere una incessante attenzione al tutto nella sua inesauribilità (pp. 232-4); che quindi la vera totalità (= la verità) è da noi raggiunta in una sintesi sempre più approfondita di conoscenza ed azione (pp. 234-6), che ci porta a colmare sempre più il divario tra il «me apparente» e il «me integrale» (pp. 236-9). L'azione, concludeva Blondel, non è così estrinseca alla conoscenza filosofica., ma ne è una «condition intégrante» (p. 239).

[15] Va detto peraltro che p. Garrigou-Lagrange non mise mai in dubbio la buona fede, la sincera volontà di ortodossia del Blondel; come del resto non la misero in dubbio neppure altri, pur severi critici del filosofo de L'Action (cfr. in AF le posizioni di Mazzantini e Padovani, pp. 237 segg.,; lo stesso Fabro, che fu particolarmente tagliente con il blondelismo, da lui interamente ricondotto a Leibniz, riconobbe «la " buona fede " dell'opera di Blondel, che egli ha inteso diretta alla restaurazione dei valori cristiani», in Dall'essere all'esistente, Morcelliana, Brescia 1957 (ES), p. 476): esplicitamente Garrigou-Lagrange lo ribadisce nel corso della polemica (C, p. 212), aggiungendo anzi di ritenere positiva anche l'intenzione di riavvicinare il mondo intellettuale moderno al cristianesimo, ciò che del resto aveva portato dei frutti visibili, smuovendo i pregiudizi anticristiani di molti pensatoti contemporanei (VE p. 197). Lo stesso Pio X, che emanò la Pascendi, ebbe modo di affermare all'arcivescovo di Aix, mons. Bonnefoy, nella sua visita ad limina del 1912: «lo sono sicuro della ortodossia di M. Blondel, e Vi incarico di dirglielo» (testimonianza di Blondel, documentata da una attestazione autografa dell'arcivescovo (C, t). 211). Tra gli altri possiamo poi ricordare i riconoscimenti fattigli anche da Pio XTI (cfr. Documentation catholique, 8-7-1945, coll. 498-9).

[16] C, n. 211. il termine res, spiegava Blondel, è insufficiente in quanto riferibile solo all'ordine naturale. non alle «più alte realtà» (non specificando se con ciò si dovesse intendere solo Dio, o anche l'interiorità spirituale umana); il termine intellectus poi si dimostra insufficiente perché non include l'aspetto immediato e vitale della conoscenza (ibid., p. 211). Questa spiegazione non bastò al Garrigou-Lagrange, che avrebbe voluto una più netta chiarificazione, che non sorvolasse sul concetto di sostituzione, ma lo condannasse senza equivoci. Blondel avrebbe pertanto dovuto dire «non pas "se sobstitue", mais "se complète par... " Porquoi? Parce que la connaissance affective par connaturalité ( ... ) complète bien la connaissance notionnelle, mais suppose la valeur de celle-ci par conformité au réel» (C, p. 212).

[17] Non ci pare fuori luogo, dato il legame di orientamento (che non può tuttavia, è giusto dirlo, ritenersi così organico, da legittimare la definizione di quella di Blondel, come della filosofia dei «nouveaux») tra le due impostazioni, richiamare il fatto che per la Nouvelle Théologie il tomismo non sia stato mai definito come irrimediabilmente superato: ovunque possibile essa ha cercato di integrare la dottrina dell'Aquinate (pur non considerandolo più, ripetiamolo, il punto di riferimento privilegiato). Anche alla luce dei successivi sviluppi di tale vicenda teologica, ci pare si possa riconoscere la sincerità, e a nostro avviso anche la fecondità sostanziale, di tale proposito. In particolare circa il problema, teologicamente centrale, del nesso tra natura e soprannaturale, vertente intorno alla questione del «desiderium naturale videndi Deum», ci pare ampiamente documentato come la soluzione, proposta da de Lubac, fosse più fedele a S. Tommaso (come appare chiaro nelle prime quaestiones della Prima Secundae) di quanto non lo fossero certi commentatori moderni, in particolare il Gaetano (cfr. Augustinisine et théologie moderne, Paris 1965, tr. it. Milano 1979, pp. 151 segg.).

[18] è lo stesso Garrigou-Lagrange ad accostare Blondel a Kant, in VE, pp. 186-7: «Le point de départ de cette manière de voir apparait surtout chez Kant - per il quale, non essendo aperto alla conoscenza dell'essere, del noumeno (in accordo, è sottinteso, con Blondel) - l'homme est donc enfermé en lui-même et n'en peut sortir». Impossibilitato a riconoscere teoreticamente Dio, in Blondel, come già in Kant, l'uomo vi potrà pervenire soltanto praticamente, eticamente: Dio sarà così affermato come risposta ad un bisogno morale del soggetto, senza averne alcuna certezza ontologica. In realtà non ci appare molto corretto questo tipo di accostamento, per lo meno nei termini in cui lo operava il Garrigou-Lagrange (non più di quanto non lo fosse quello, proposto dal Fabro, benché con più documentazione, a Leibniz: «La filosofia di Blondel scaturisce da un'unica fonte principale e questa è Leibniz», ES, p. 462): per Blondel il noumeno viene colto dallo sforzo congiunto di speculazione e azione, e pertanto Dio non risulta staticamente postulato, ma la sua esistenza viene in qualche modo verificata nel dinamismo esperienziale, che l'orientamento a Lui rende autorealizzante.

[19] Blondel attribuiva grande importanza a questo aspetto: non basta dire la verità, occorre dirla il più persuasivamente possibile, rendendola il più possibile attraente, tenendo conto della personalità intera dell'interlocutore (o del destinatario), che non è una pura intelligenza logica (significativo è l'episodio da lui riferito in Esigenze filosofiche del Cristianesimo, tr. it. Messina 1954, pp. 96-9). Del resto, anche in questo caso, la sua posizione si inserisce nell'alveo della tradizione patristico-monastica (cfr. il classico di J. LECLERQ, L'amour des lettres et le désir de Dieu).

[20] Ci riferiamo, ad es., a CLAUDE TRESMONTANT, La crise moderniste, ed. du Seuil, Paris 1979, pp. 108-9: «La méthode philosophique, que Blondel met en oeuvre ( ... ), prend tout son sens si l'On se replace dans le contexte où le milieu philosophique dans Iequel Blondel avait été formé, et si l'on tient compte du public auquel il s'adresse. Ce public de philosophes n'admet, après Kant ( ... ), les preuves de l'existence de Dieu qui procedent à partir du monde ( ... ). Blondel leur dit, en substance: admettons toutes vos restrictions, légitimes ou non».

[21] Ad esempio Maritain riteneva che l'apologetica fosse «l'ordine nel quale il pensiero di Blondel può trovare il suo vero posto»; ma, ammoniva, «l'apologetica è altra cosa che la filosofia» (Distinguer pour unir, Paris 19596, tr. it. Brescia 1974, p. 531).

[22] Ibidem: «Il pensiero di un Pascal può essere liberato dagli errori che vi farebbe insorgere una trasformazione in sistema filosofico, perché Pascal, apologista e mistico, sorvola quasi costantemente la filosofia. Invece la sistemazione filosofica, in cui il pensiero del Blondel ha preso forma, gli è essenziale».

[23] «Il était necessaire - spiegava Blondel in C, p. 210 - d'indiquer comment et pourquoi l'option humaine peut contredire, sans la supprimer jamais, la valeur des principes premiers dans la réalité de la rebellion méme». Non si veda una contraddizione con quanto detto poco sopra: Blondel è spinto a riflettere su un problema, che, se è nella nostra temperie storico-culturale particolarmente pressante e drammatico, resta in se stesso identico in ogni epoca e situazione, come universalmente e metastoricamente valida è la soluzione propostane.

[24] Per un abbozzo sintetico della concezione blondeliana di metafisica cfr. La métaphysique comme science de l'au de là intérieur et supérieur, in «Rev. de métaph. et de morale», 1947, pp. 193-200. Replicando all'accusa del Garrigou-Lagrange, secondo cui Blondel avrebbe rigettato ogni metafisica, p. de Solages ricordava appunto L'Etre et les étres, ed espressioni tratte da altre opere del filosofo di Aix, come la seguente: «l'être est... le principe, le centre, le but de toute pensée et de toute agir» (La Pensée, vol. Il, p. 402). Cfr. J. ECOLE, La métaphysique dans la philosophie de Blondel, Paris-Louvain 1959.

[25] Con l'interpretazione «cattiva» del Garrigou-Lagrange concordavano, sostanzialmente, il DE TONQUéDEC (voce «Immanence», Dict. Apol. de la foi caTh., ed. Beauchesne, Paris 1924, t. 11, coll. 6045), MARITAIN (Op. cit., p. 531), FABRO (ES, pp. 437-9), G. Di NAPOLI («M. Blondel e la pienezza dell'essere», in La concezione dell'essere nella filosofia contemporanea, ed. Studium, Roma 1955, p. 197), U. Padovani (AT, pp. 304-5). Esula dall'argomento del presente articolo, circoscritto al tema della verità, il problema della dimostrazione dell'esistenza di Dio, su cui si sono puntate le maggiori riserve da parte dei filosofi neotomisti. Così nel convegno di Gallarate del '47. in cui venne presentata, sopratutto grazie all'opera dello Sciacca, la filosofia di Blondel, le obiezioni vertevano, più che sulla presa dell'intelligenza concettuale sull'essere, sull'insufficienza della sua metafisica a giungere, in modo teoreticamente rigoroso, a Dio. Cfr. AF, gli interventi di Padovani (pp. 305 e 328), Mazzantini (pp. 327-8) e Bontadini (pp. 328-9). Lo stesso Sciacca, che pur riconosceva di dover molto della sua evoluzione intellettuale al Blondel, di lì a qualche anno avrebbe condiviso almeno in parte tale tipo di obiezione. Aggiungiamo che, a favore della coerenza delle prove blondeliane, si espresse, con maggior originalità dell'Archambault e del Romeyer (autori rispettivamente di una Initiation à la philosophie blondelienne, Paris 1946, e de La Philosophie religieuse de M. Blondel, Paris 1943) il LACHIèZE-REY, in Réflexions sur la valeur ontologique de la méthode blondelienne, in Hommage à M. Blondel, Paris 1943, secondo cui nella Trilogia Blondel supera l'esigenzialismo soggettivistico de L'Action del '93, giungendo, grazie ad un nuovo riconoscimento della portata del concetto, ad una vera dimostrazione dell'esistenza di Dio.

[26] Garrigou-Lagrange riteneva infatti accettabile la tesi di Blondel, se la si fosse intesa così: «certains esprits sont si mal disposés qu'ils cherchent à se soustraire à l'evidence naturelle du principe de contradiction comme loi de l'étre» (IMD p. 128). Il fatto è - annotava ancora Garrigou-Lagrange - che «M. M. Blondel confond assez souvent, même dans ces derniers ouvrages, des déformations accidentelles avec la nature d'une faculté essentiellment relative à son objet propre » (ibidem). Si tratta appunto di sapere se ciò a cui Blondel intendeva riferirsi fosse la natura dell'intelligenza (come riteneva Garrigou-Lagrange), e quindi la oggettiva «presa» sull'essere, ovvero lo stato concreto e «storico», la complessiva situazione in cui l'intelligenza si trova ad operare, e quindi il grado soggettivo di certezza su quell'essere, che viene comunque necessariamente attinto.

[27] Il bene deve infatti fondarsi sul vero, l'etica sull'ontologia - incalzava Garrigou-Lagrange - «autrement il ne sauraìt étre question d'un vrai bien, mais d'une apparence de bien, dans le mouvement de l'action qui ne serait peut-étre que sentimentalisme et non pas veritable amour. Pour que la volonté tende vers le bien véritable, et non pas illusoire, il faut qu'elle soit profondément rectifiée par l'intelligence qui seule peut connaitre l'être, le réel, le vrai et aussi le bien véritable ( ... ). Seule l'intelligence peut juger de lui par un jugement vrai, c'est à dire conforme au réel, selon la definition traditionnelle de la vérité» (IMD, pp. 1304).

[28] In Blondel et le Cristiantisme, ed. Du Seuil, Paris 1961, opera in cui l'autore, uno dei «nouveaux», discepolo di de Lubac, e lui pure coinvolto nella polemica per il suo Conversion et gráce chez S. Thomas d'Aquin, ed. Aubier, Paris 1944, difendeva la piena ortodossia di Blondel.

[29] Op. cit., p. 36. Dunque risulta infondata l'accusa di fideismo, dal momento che la «connaissance de l'étre» è qualcosa di necessario ed universale. Una interpretazione benevola della gnoseologia blondeliana dava pure, nel già citato convegno di Gallatate, il padre Giacon (AF, pp. 324-6).

[30] Cfr. M. Ritz, Le problème de l'étre dans l'ontologie de M. Blondel, Fribourg 1958, pp. 82-5 passim; G. Di NAPOLI, La concezione dell'essere, cit., p. 196. Anche A. BAUSOLA, in Problemi dell'ontologia blondeliana, in «Riv. di fil. neoscol.», f. 3, 1959, ha visto in Blondel un «pericoloso unitarismo organicistico, che tende a monistizzare l'essere» (p. 233). Di parere ancor più severo il Fabro, il quale vede centrale anche in Blondel il concetto leibniziano di vinculum substantiale (ES, pp. 466-70).

[31] Non sono peraltro mancati studiosi, che hanno ravvisato in Blondel delle notevoli analogie con Hegel (cfr. P. Henrici, Hegel und Blondel, Miánchen 1958), anche se ci pare più appropriato l'accostamento al Bergson, proposto, in termini equilibrati, dal Romeyer (op. cit.). Rispetto a Bergson, tuttavia, Blondel rivaluta la portata conoscitiva, e non meramente pratica, dei concetti: «Se si tentasse di fare a meno del pensiero discorsivo per conoscere il reale, si giungerebbe, lo si voglia o no, all'irrealtà (irréalité) del pensiero, come pure all'inintelligibilità dell'essere» (DP 244).

[32] Tutte le espressioni, da noi sopra riportate, non indicano, se ben le si legge, e se le si colloca nel loro contesto, un primato del divenire sull'essere; ciò che a Blondel sembra innanzitutto premere è la rivalutazione della evolutività, del dinamismo progressivo del nostro (personale) approccio conoscitivo al reale. Se ad es. egli parla di un fieri totale, non intende dire, come sembra malevolmente interpretare Garrigou-Lagrange, che tutto il reale finito diviene sotto ogni aspetto, ma che in qualche modo tutto diviene sotto qualche aspetto, soprattutto in rapporto alla nostra conoscenza. «Bisogna evitare - ammoniva nell'articolo in questione - di fare del fieri stesso un nuovo essere; non bisogna erigere il movimento (...) a spiegazione definitiva»(p. 233). Movimento e stabilità, come sintesi e analisi, speculazione e vita, filosofia e azione, riflessione concettuale e immediatezza intuitiva, sono polarità che non bisogna scindere se non si vuole tradire quella verità, che - questo è il senso profondo dell'articolo - coincide con totalità (DP p. 249).

[33] Cfr. E. GILSON, La philosophie de Saint Bonaventure, Paris 1984, pp. 189-91. Osservazioni pregevoli sul problema della analogia anche in J. SEIFERT, Essere e persona, Ed. Vita e Pensiero Milano 1989. Sulla «tradizionalità» della ontologia blondeliana, in merito al problema dell'unità dell'essere, cfr. il cit. éCOLE, La Mét., p. 196; e M. T. ANTONELLI, In margine all'ontologia blondeliana, «Giornale di metafisica», f. 4, 1948, p. 307.

[34] La «vita» non è infatti qualcosa di informe, e di modificabile a piacimento; essa ha una struttura intelligibile (DP pp. 241-3). La crescita ha così un termine determinato e stabile, per il quale nel medesimo articolo Blondel usa prevalentemente parlare di autorealizzazione, di attuazione del «moi intégral», a partire da una condizione iniziale di «inadéquation». I contrari non si equivalgono, né si sintetizzano, e, delle molte possibili vie, una sola è quella giusta, capace di realizzare il bisogno di felicità.

[35] «Le Christ n'a-t-il pas dit: Ego sum Via, Veritas et Vita? Or n'est-ce point là montrer que la vérité simplement speculative ne suffit pas, qu'il faut nous mettre en marche, à la lumière de cette lampe attachée à nos pas, lucerna pedibus, du Psaume 118, marche et lumière qui doivent nous conduire non seulemente à la connaissance, mais ancore à la vie éternelle? Rien de Plus immuable que cette vérité d'aboutissement à Dieu» (C, pp. 2104). Su questo vedasi anche F. Sciacca, Dialogo con M. Blondel, ed. Marzorati, Milano 1962, in particolare pp. 118 segg.